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  • Immagine del redattoreMàdő

CRONACA DI UN RITORNO



Nella seconda metà di Febbraio sono partita per quella che sarebbe dovuta essere una delle avventure più entusiasmanti della mia vita.


Carica di aspettative e di una valigia da 23 kg, dopo due giorni di viaggio, sono arrivata a Lima per iniziare il mio anno di servizio civile all'estero che mi avrebbe portato alla conoscenza della cultura peruviana e offerto la possibilità di ritrovarmi nella foresta amazzonica a condividere il pasto con una tribù indigena. Pregustavo già il "suri" (un vermicello croccante).


LIMA, PERÙ


Plaza de Armas, Lima. Una sorridente me, ignara che di lì a poco una pandemia globale avrebbe interrotto tutto.

Durante la seconda settimana di permanenza ho cominciato a ricevere notizie per nulla confortanti dall'Italia: zone rosse, quarantena, controlli e posti di blocco.


Che il clima stesse cambiando si vedeva: storie Instagram con video-chiamate di gruppo a tema e hashtag #iorestoacasa cominciavano a comparire un po’ ovunque.


Io, invece, mi sentivo fortunata: partita giusto in tempo per il Sud America dove, del COVID-19, neanche l’ombra. Che illusa.


Nel giro di una settimana le cose si sono evolute molto rapidamente, troppo rapidamente. Iniziano a contarsi dei primi casi di contagio anche in Perù, ma ancora pochi per destare preoccupazioni: uno o due.


Intanto le notizie dall'Italia si susseguono sempre più allarmanti tanto quanto allarmanti cominciano ad essere i contagi in aumento anche in Perù.


Da un giorno all'altro scopro che il governo peruviano ha deciso di chiudere tutte le scuole e le università fino a fine Marzo, di conseguenza chiude anche l’università presso la quale svolgevo il volontariato: era chiaro che ad Atalaya, piccolo “pueblo” situato all'inizio della selva, luogo dove avrei dovuto prestare le mie competenze per aiutare gli studenti del posto nello studio, non ci sarei mai arrivata.


Considerando l’evoluzione della situazione italiana, comincio a temere provvedimenti simili anche in Perù.


Assalita dai dubbi, decido di uscire di casa per andare a fare la spesa nel al supermercato più vicino. All'entrata si respira un’aria insolita, noto gente che si affanna per fare incetta di qualsiasi articolo, carrelli pieni e scaffali vuoti. Tutti cercano di appropriarsi di un monton de papel igenico (carta igienica, ndr), indispensabile quanto pane e acqua.

 

EMERGENZA COVID-19


Qualche giorno dopo ricevo una mail dall'ufficio del servizio civile dall'ente italiano con oggetto “Emergenza COVID-19”. Nel testo consigliano di prendere seriamente in considerazione l’idea di rientrare.


Allarmata, assieme agli altri ragazzi del servizio civile, decidiamo di contattare l’ambasciata italiana per ulteriori informazioni. Ci danno appuntamento nell'immediato.


Le notizie non sono incoraggianti e ci comunicano che di lì a breve il governo avrebbe interrotto tutti i voli dal Perù verso l’Europa.


Il giorno successivo, dopo una serie di valutazioni personali e una valutazione del sistema sanitario peruviano, fatto di ospedali pubblici non paragonabili in termini di assistenza a quelli italiani e di ospedali privati, eccellenti ma al di fuori della portata di una semplice volontaria, decido di rientrare: cosa non semplice, nonostante fosse consigliata.


Le compagnie aeree avevano già iniziato a cancellare parecchi voli. Panico.


Alla fine, grazie ai consigli dell’ambasciata, si riesce a prenotare dall'Italia un volo che sarebbe partito dopo solo sei ore… Sei ore per impacchettare tutti i 23kg di bagaglio con aspettative al seguito (metto anche quelle in valigia) e barcamenarmi verso l’Aeroporto Internazionale Jorge Chávez.


L’aeroporto di Lima è affollatissimo di gente in partenza per qualsiasi direzione Qualcuno indossa la mascherina, qualcuno no. Provvista di guanti e mascherine fornitemi dall'ambasciata e, con la mia scorta personale di gel igienizzante, sono pronta per partire.

Parto all'una di notte con un volo che dura… non saprei. So solo di essere arrivata a San Paolo in Brasile alle 8:20, ora locale. Lì il nulla.

 

SAN PAOLO, BRASILE


Aeroporto semi deserto, pochissima gente e quasi nessuno indossava la mascherina.

Otto lunghe ore di scalo durante le quali sono stata bene attenta a mantenere la distanza interpersonale e tutte le norme igieniche consigliate.


Si riparte per Roma. Undici ore di volo, un volo quasi totalmente vuoto. Posso allentare un attimo la tensione e dormire comodamente su tre sedili.

 

ROMA, ITALIA


Arrivata a Roma di prima mattina, nell'aria si respira angoscia.

Ti controllano la temperatura corporea, tutti sono muniti di mascherine e guanti e per favore, ci dicono, mantenete la distanza di un metro di sicurezza tra di voi.


L’aeroporto è deserto, i negozi sono chiusi e i voli vengono cancellati di continuo.

Tra le altre cose, a Roma scopro che il volo preso da Lima era stato praticamente l’ultimo in partenza: mentre io ero in viaggio, il presidente del Perù, Vizcarra, aveva chiuso le frontiere via terra, via mare e via aerea, annunciando una quarantena di quindici giorni.


Mi imbarco l’ultima volta per tornare a Bari e all'arrivo conto circa venticinque passeggeri.

 

BARI, ITALIA


Non chiedo a nessuno di venirmi a prendere dall'aeroporto.

Nell'ascensore della stazione mi scatto una foto per testimoniare a mia madre in primis di essere viva ed anche per mostrarle di essere ben impacchettata con guanti e mascherina, dopo aver seguito tutte le norme igieniche.

Prendo il treno, ma non torno a casa poiché ho intenzione di condurre un periodo di quarantena fiduciaria altrove, in totale isolamento.


Da qui scrivo queste parole con l’auspicio che i miei colleghi rimasti in Perù stiano bene e riescano a rientrare in patria, ma soprattutto che tutta questa brutta storia possa finire presto e nel migliore dei modi così da poter riprendere le nostre vite piene di aspettative e di valigie da 23kg.

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